sabato 28 febbraio 2009

Mai fare i conti senza LOST*

Bellissima versione acustica di Lost dei Coldplay!

Lost

Just because I'm losing
doesn't mean I'm lost
doesn't mean I'll stop
doesn't mean I will cross

Just because I'm hurting
doesn't mean I'm hurt
doesn't mean I didn't get what I deserve
no better and no worse

I just got lost
every river that I've tried to cross
every door I ever tried was locked
Oh, and I'm just waiting till the shine wears off...

You might be a big fish
in a little pond
doesn't mean you've won
'cause along may come
a bigger one
And you'll be lost

Every river that you tried to cross
every gun you ever held went off
Ooh-Oh, and I'm just waiting 'till the firing starts
Ooh-Oh, and I'm just waiting 'till the shine wears off ...

(*che titolo penoso, eh? so' proprio LOST...)

io, sempre io...

Gunnar


In pratica, erano le 4 e perciò doveva alzarsi.

Non proprio un dovere, anzi. Per Thomas Verro alzarsi tutti i sabati alle 4 di mattina faceva parte dell’hobby che praticava ormai da mesi: estrarre a sorte un giro in macchina sulle statali e partire. Ogni volta, un percorso diverso, questa volta viaggio fino a Roma e ritorno. E se l’estrazione dava lo stesso risultato consecutivo, Thomas ripeteva il percorso senza fiatare.

Solo una volta, quando estrasse per la quarta volta consecutiva Jesi-Pianello/50 volte, bestemmiò cavernosamente.

Pause prestabilite nei soliti posti per mangiare e fare i bisogni. Thomas era un perfetto capricorno, pignolo e abitudinario, e la sua vescica si era ormai rassegnata. Non lo stesso si poteva dire dei suoi intestini dispettosi, che amavano sorprenderlo con violente scariche nei posti più impensati. Posti senza aree di ristoro, senza siepi o fossi riparatori. Posti senza vita, ma che si riempivano di frotte di guidatori appena le feci facevano capolino dal suo corpo. Eserciti di persone pronte a sputtanarlo durante lo sforzo supremo dietro lo sportello dell’auto.

Erano i suoi famosi attacchi di diarrea emozionale.

In passato lo avevano costretto a rapide e violente gettate di sterco caldo e fumante durante una grandinata, col culo esposto al vento, al gelo, alle piogge. E sempre sui bordi striminziti della strada, unico riparo lo sportello. E tante erano le volte che gli OONK! dei camion che lo scoprivano gli facevano serrare di colpo i muscoli anali, interrompendo il sublime piacere di una sciolta in santa pace.

E più di una volta l’impeto era stato così urgente, da farlo uscire dall’auto, tirando contemporaneamente su il freno a mano e giù i calzoni , in sincrono perfetto, per lasciarsi andare tra spasmi e fitte di dolore.

Si augurò che quella mattina andasse tutto bene.

Scostò le coperte e rimase cinque minuti a testa bassa, seduto sul letto. Dopo una grattata alle palle e alla robusta collottola, si decise. Uscì ripassando il programma: pieno alla Esso, poi una tirata fino alle 8 per la colazione al Bar Zengoni, feroce pisciata e poi dritto a pranzo (pizza al taglio e lattina ghiacciata di chinotto ciociaro, il gustoso Chin8)), poi raccordo e ritorno indietro, eventuale sosta per un caffè.

A casa, doccia, riposo e uscita con quegli idioti dei suoi amici, per poi finire coll’addormentarsi sul tavolo del ristorante alle 9 di sera, il filo di bava e la collottola alla mercè degli scherni dei suoi compagni.

Salì in macchina, una Bravo Blue Steel di un cangiante verde Irlanda con più di 250mila km sul groppone. Dentro, un covo di acari e germi vari furono sorpresi nel sonno, accoccolati tra cartacce, resti di fast food, fazzolettini lordi di caccole, molliche, bottlgliette di plastica di bibite ormai fuori commercio, scontrini e lanugini varie. Controllò che tutto fosse a posto, il porta cd, tutti di Madonna, lo stradario e la carta igienica. Diede una sistematina al sedile, allo specchietto e a Gunnar, una pantegana di peluche grigia, acquistata all’Ikea, riponendola con dolcezza sul vano portaoggetti posto davanti al sedile del passeggero.

Durante il viaggio, Thomas pensò molto. Madonna gli cantava all’orecchio tutto Confessions e lui si abbandonava alla musica e al rumore, insolitamente sommesso per una Fiat. Pensava al massimo che poteva, quando viaggiava. La vita, la morte, il lavoro, gli amici, le chat, i bukkake, tutto.

Il sole era già al lavoro quando si fermò per la prima tappa stabilita. Colazione senza sorprese, ma gustosa, come sempre: cappuccio e cornetto. Pisciata regolare. Scontrino e via, al volante. Come tutte le volte che dall’estrazione usciva il giro Jesi – Roma, tutto avveniva come un rito, mangiava sempre la stessa cosa, il cd era sempre quello, persino i pensieri cominciavano a ripetersi sempre uguali. Ad ogni tratto corrispondeva una canzone di Madonna e un ugual filo di parole mentali.

Dunque, era pronto a ripartire.

Ma.

Ma ora c’era qualcosa di strano e di diverso che per qualche minuto lo paralizzò. Niente di sconvolgente, niente di clamoroso, tuttavia qualcosa c’era.

A destra, nel vano portaoggetti.

Dapprima la notò solo con la coda dell’occhio, poi si girò completamente, sempre più rapito dalla cosa. Gunnar. La pantegana. Ora aveva la coda sotto il corpo.

Impossibile, era distesa quando lui era sceso. Era sempre distesa, lui amava srotolare la sua coda lunga e diritta. Certo come la morte che prima di partire l’aveva srotolata, al solito. Come era possibile?

Si grattò il mento con le lunghe unghie da suonatore di chitarra, si schiarì la voce e, stupidamente, si guardò intorno. Nessuno. La portiera era chiusa, eppoi chi diavolo avrebbe fatto una cosa tanto cretina come aprire lo sportello, infilare la coda di Gunnar sotto la pancia e andarsene? Gunnar gli restituì uno sguardo di pezza, occhi neri lucidi di plastica, dentoni di stoffa e baffi storti di lana grezza.

Inquieto, Thomas scrollò la testa e ripartì, ma stavolta serio e senza accorgersi che Madonna aveva ripreso a cantargli di un certo Isaac, un qualcosa che aveva a che fare con cancelli aperti e anime lacerate. Nonostante il climatizzatore, Thomas aveva un po’ freddo. Guidava, ma l’occhio gli andava a intervalli regolari su Gunnar. E sulla coda.

Gunnar. Coda. Gunnar. Coda. Niente. Tutto normale. Come sempre.

- Cazzo – fece dentro di sé Gunnar – a momenti mi fottevo da solo! Ma come mi è venuto in mente di piegare la coda? Maledetti crampi! qua è sempre più dura fare il pelouche, non ce la faccio più! Dai, pare che il coglione si sia messo tranquillo. Tra poco si convincerà che è stato lui a piegarmi la coda. Devo solo stare fermo. Altrimenti mi svuoterà! Per Thor, che vitaccia!

Gunnar era nato per tribolare, ormai gli era chiaro. E il momento di tranquillità che era iniziato qualche giorno dopo che l’umano lo pescasse tra mille altre pantegane da un grosso cesto all’Ikea stava per finire, se l’umano si fosse insospettito e avesse iniziato a tenerlo d’occhio durante i suoi spostamenti. Come era finito a fare quella vita? Perché non aveva dato retta a sua madre Ingrid e ai suoi 243 fratelli maggiori? Davvero erano così insostenibili le fredde fogne di Svezia?

Beh, prima cosa lui non era come le altre pantegane. Già in tenera età faceva domande su cosa c’era fuori, sopra la testa sua e dei suoi compagni. Suo padre Lars, prima di fuggire con una panteganotta più giovane e grassoccia, gli ripeteva come un mantra: niente. Niente che valga la pena di vedere, figlio mio. Niente.

Ma un bel giorno senza sole, Gunnar partì. Voleva vedere questo famoso niente. Tra cunicoli e tubature c’era da perdersi ma lui non si perse mai d’animo. E finalmente uscì e quello che vide lo spaventò. Era troppo, questo niente! Umani ovunque. Cose sconosciute, altri esseri su quattro zampe, e rumori, i rumori! Ma neanche una pantegana.

Presto ebbe paura. Si ritrovò a corricchiare di qua e di là, ogni tanto squittendo nervosamente. Aveva paura di tutto e per un attimo si rimproverò per quest’alzata d’ingegno. Passò la notte in prossimità di un cassonetto, almeno da mangiare l’aveva trovato. Questo l’aveva colpito. C’erano cose più buone e in maggior quantità fuori rispetto al solito cibo della fogna. Sempre il medesimo piscio da bere. E ora che aveva scovato altri mille anfratti, era contento di dire addio al vecchio letto di tampax umidi che gli facevano venire dolori alla cervicale. Si stava bene sulle foglie ammassate o su pezzi di un materiale morbido e caldo che di tanto in tanto gli capitava di incontrare. E l’aria, fresca e profumata!

Ben presto, il piacere delle sue scoperte ebbe il sopravvento sui suoi timori. Iniziò a capire che a lui era riservata una vita dagli standard qualitativi più alti, rispetto a quei fifoni dei suoi fratelli e a quelle zoccole delle sue sorelle, sempre pronte a farsi impregnare, soprattutto quella viscida di Katinka.

Purtroppo, la spavalderia che andava crescendo di giorno in giorno giocò un brutto scherzo a Gunnar. Aveva sopravvalutato il senso di schifo che incuteva agli umani e soprattutto alle umane, quelle con la voce stridula come di topa in calore, e i cui culi, aveva notato, erano più grossi di quelli dei maschi. Un esemplare maschio, infatti, una sera lo incrociò e con un abile mossa, lo infilò in un retino e lo sbattè in un coso che si muoveva.

Insieme a lui, altre pantegane. Al chiuso, insieme a tutti quei ratti, per un attimo gli sembrò di essere tornato a casa. Ma poi l’assenza di piscio e di liquami e i colori brillanti gli fecero vedere la differenza. E inoltre era in movimento, sentiva le vibrazioni sotto il suo grasso culo.

Molte ore dopo, si ritrovò in un grosso magazzino. Tutto giallo e blu.

– beh, siamo ancora in Svezia! – disse ad alta voce. Gunnar era patriottico abbastanza da sapere quali fossero i colori della sua nazione, la migliore e la più progredita del mondo intero. Superato il problema della fame (una pantegana femmina accanto a lui aveva appena partorito una decina di teneri cuccioli e Gunnar, senza esitare, se li era ingoiati ancora caldi di placenta. Fece una zuppetta con i resti e la placenta. La madre lo ringraziò per averla sgravata…di tale inutile peso), Gunnar si appisolò. Era fiducioso per l’indomani. Confidava sulla sua capacità di togliersi dai guai. Tutto era meglio della fogna.

Esattamente 185 giorni prima, il giovane Mikkel Madsen aveva trovato il modo di farsi notare alla riunione dei giovani creativi dell’Ikea. Erano finiti i giorni da semplice stagista e presto quegli stronzi razzisti svedesi avrebbero finito di prendere per il culo lui e la sua Danimarca.

-C’è del marcio nel regno di Danimarca - amava ripetere il più grosso stronzo che avesse mai galleggiato lungo le coste svedesi, Ingmar Johansson, quando Mikkel gli si avvicinava – e ora ce l’ho davanti a me! Mikkel, puzzi di merda, dai!

E tutti ridevano.

Ma era finita, finalmente.

In quanto giovane mente danese sempre in fermento, Mikkel aveva osato prendere la parola in quella benedetta riunione. Si discuteva del settore prodotti dell’infanzia.

Ikea era fiera per i suoi animali in pelouche, del loro contributo all’educazione del coraggioso bimbo nordico e alla sua differenziazione dal rincoglionito bimbo mitteleuropeo.

Il piccolo guerriero scandinavo, grazie ai suoi pelouches, familiarizzava in tenera età con ragni sinistri, draghi feroci , scorpioni spietati, grosse vespe, serpenti velenosi, squali assetati di sangue, orsi giganti, formiconi e pipistrelli disumani, a differenza del suo coetaneo più a sud, domatore al massimo di teneri orsacchiotti, soffici coniglietti, tonde paperette , dolci cagnolini e soavi micetti.

Il piccolo Sven sarebbe diventato un vero uomo.

Tutto questo grazie anche ad Ikea.

Ma il problema era l’alto costo del materiale e della manovalanza atti a creare simili teneri trastulli.

E ora stavano per lanciare altri animali, con conseguenti costi aggiuntivi.

Insomma, dopo aver liquidato tutta l’infanzia del sud europeo sotto il file Future Checche e Svenevoli Donnette, contrapposto a quello dei Futuri Vichinghi e Indomite Eroine, la domanda venne espressa fuori dai denti. Come ridurre i costi, signori miei?

Il silenzio era pesante e spesso come la vela di una nave vichinga, ma Mikkel tra sé esultava. Era giunta l’occasione! Tossicchiò per attirare l’attenzione e parlò:

- Stiamo per lanciare la pantegana grigia con sottopancia bianco, giusto? Beh, possiamo fare poco per draghi e bestiole giganti, dato che esse…ehm, non esistono…cioè, i draghi sono esistiti, tutti i nostri avi più valorosi li hanno combattuti e vinti, però…appunto, non ci sono più. Ma le pantegane! Al mondo ci sono più pantegane che uomini, forse solo i bacarozzi sono più numerosi…

- E allora, Madsen? Vieni al punto – gracchiò Johansson, più stronzo che mai. Qualcuno aveva cominciato a ridacchiare e a guardarsi le punte delle dita e a muoversi sulle sedie. Ecco il danese che apriva bocca e sparava una cazzatona, pensavano tutti. Raccontaci la favoletta, Andersen!

Mikkel riprese fiato e disse teatralmente:

- Beh, è semplice. Catturiamo pantegane, le svisceriamo, le essicchiamo come stoccafissi e le ricopriamo con un sottile, sottolineo sottile, strato di stoffa economica. Denti, baffi e occhi saranno finti, sennò i bambini mangeranno la foglia. I bambini scandinavi, chiaro, gli altri sono un po’ più tardi…ehm.

La vela vichinga di pesante silenzio calò ancora una volta. Ma nessuno stava ridacchiando. Tutti immobili, tutti a fissare il volto spigoloso di Mikkel. Poi Johansson sbuffò:

- Madsen, è ora che qualcuno ti spieghi come funzionano le cose, nella vita vera. Ad esempio – rise sarcastico - quella cazzo di sirenetta che avete a Copenhagen non esiste, non è che l’hanno catturata, sbudellata e ricoperta di cemento e sta lì ad aspettare di fare pompini a tutti i danesi!

Partirono ondate di risate, uno scroscio di pioggia ilare che coinvolse tutti, le pur robuste sedie Ulla scricchiolarono sotto le convulsioni dei loro occupanti.

Ma ben presto il più autorevole tra i partecipanti, il direttore Ingvar Kristiansen alzò la mano. Tutti tacquero di colpo.

- E’ un ‘ottima idea.

- Ma…

- Zitto, Johansson!

- Ma, signore…

-Zitti, idioti! Tutti quanti. Madsen, quando domattina entrerà nel suo nuovo ufficio, voglio tabelle comparative, prezzi, preventivi, diagrammi e quant’altro. Voglio sapere quanto risparmieremo.

- Signore, se mi permette, è…

- Ah, Johansson, quanto hai rotto il cazzo! Impara, una volta tanto! E, per chiarire, i pompini a Copenhagen te li fanno e le sirenette esistono eccome…di tutte le età, bionde, rosse, more, magre, grasse. Chi può negare che in realtà non sia una sirena la battona che stai pagando? Così è per la pantegana, ogni bambino può pensare che sia vera o meno, chi glielo può impedire? E perché poi?

Mikkel rispose con un largo sorriso. Tieni, stronzo! W la Danimarca! Dissero i suoi occhi a Johansson. Johansson uscì per primo, di scatto, giocandosi una palla contro l’angolo vivo del tavolo Tromso.

E 185 giorni dopo, Gunnar continuava a sonnecchiare sotto i baffi, ignorando l’essiccatura post mortem che lo attendeva.

Il 186esimo giorno dall’Avvento di Mikkel, Gunnar venne portato con i suoi simili in un grande stanzone dove regnava un’aria sinistra. Olfattivamente parlando. Fu allora che udì Olaf, uno dei ratti più anziani, sospirare. Iniziò a dire che aveva visto molti suoi compagni sparire dentro uno di quei strani congegni, quando, mesi fa, era andato a rubare cibo nella mensa. E aggiunse che una volta un suo amico, salvato dagli dèi, raccontò che tutte le pantegane venivano uccise e vendute ai bipedi.

A Gunnar si rizzò il pelo e la coda cominciò a saettare inquieta. Morire, lui? E per che cosa s’era fatto tanto il mazzo? No, doveva fuggire! Doveva esserci un’alternativa tra la fogna e la morte!

Approfittò della confusione e quando la gabbia venne aperta, sgattaiolò e imboccò un lungo tubo. Sarà che un tubo ricorda sempre casa, sarà che il buio si confà meglio ad una pantegana, ma fu così che Gunnar ebbe salva la vita. Il tubo aveva un nastro dentro e su questo nastro scorrevano centinaia di pantegane morte.

Pantegane strane, osservò Gunnar. Morbide, sì, ma rivestite di un pelo innaturale. E occhi enormi, duri e vitrei. E quei denti, grandi ma morbidi, non sarebbero stati capaci di rosicchiare neanche del burro salato norvegese.

Poi, la rivelazione lo fulminò. Vide la luce. Quello era il risultato finale, quello per cui erano lì. Allora decise di rischiare il tutto per tutto.

Si abbandonò sul nastro, si finse morto finchè con uno scatto s’infilò sotto uno di quei Frankenstein. Il viaggio terminò con un volo in una grande cesta, Gunnar finì sepolto da mille pantegane morte e leggerissime.

Il resto fu facile. Svuotò, con sommo schifo, una pantegana semilavorata a caso, s’infilò dentro e, calzate le zampette, corse verso dei grossi veicoli con le ruote.

Al ritmo di Gimme!gimme!gimme! degli Abba, che risuonava nello stabilimento, Gunnar stabilì il record degli 800 metri. Saltò su un camion e si appiattì in mezzo a tanti altri suoi sfortunati simili. - Questi cosi con le ruote si muovono, perciò mi tireranno fuori di qui, devo solo fare una cosa: stare fermo il più possibile, come questi sfigati! Se gli umani mi scoprono mi svuoteranno!

Il camion uscì dalla rimessa in mattinata. Gunnar dormiva, la sua cesta era proprio quella sotto il cartonato che recava la scritta IKEA – ANCONA SUD.

E fu così che Gunnar finì tra le mani di Thomas. Arrivato ad Ancona, rimase settimane nello stabilimento. Dopotutto, aveva calore, luce, musica e cibo facile da rubare. L’ozio lo aveva ammorbidito. L’unico suo impegno, anche se duro, quello di rimanere immobile dalle 10 alle 20, domeniche incluse.

Inoltre, confidava sugli europei del sud: non erano abbastanza coraggiosi da regalare ai loro pargoli una pantegana. Nessuno lo avrebbe preso.

Questo spiega il senso di scocciatura che lo colse quando una mano ossuta, dalle dita lunghe e dalle unghie annerite da residui di saldatura, lo pescò dal mucchio.

L’umano era in compagnia di un’umana. Gunnar capì il loro linguaggio, mesi di Ikea lo avevano addestrato.

- Cazzo, quant’è ciccia e morbida questa pantegana, Thomas!

- Già…carina.

- Comprala! La metti in macchina, così ti distinguerai dagli altri.

- Beh, sì…

- Vuoi mettere, una macchina con un ratto? Invece di quegli stupidi orsacchiotti, le paperelle e gnagnagna!

- Sì, mi piace, la compro.

- Puttana! - Soffocò tra i denti Gunnar – un’umana che ama le pantegane?! Puttana nordica!

L’irritazione di Gunnar crebbe quando scoprì di valere solo 3.99 euro.

Col passare dei giorni, Gunnar si abituò alla sua nuova vita.

In una Fiat.

Certo, una Volvo sarebbe stato il massimo, al limite una Saab, ma tutto era meglio che essere svuotato, essiccato, riempito di cotone e dato ad un piccolo umano sbavazzante. E comunque quella Fiat, anche se ridotta ad una discarica, non era una fogna.

La sua Svezia gli mancava un po’. Niente Abba, niente polpette ai mirtilli, niente aringhe o salmoni. Però gli avanzi della pizza gli piacevano, anche se Madonna non la sopportava. Andava meglio con gli occasionali Slayer e Sepultura, ma non reggevano in confronto al metal scandinavo. Però, Gunnar poteva sgattaiolare spesso dall’auto, quando era notte e l’umano dormiva nella sua tana. E occasionalmente aveva cercato solidarietà con le pantegane indigene, ma erano più chiuse, diffidenti e le femmine non si facevano scopare con la stessa facilità delle svedesi. D’altronde, non aveva rischiato così tanto per poi ritrovarsi di nuovo in una fogna, specie se straniera. Tutto sommato era libero di farsi gli affari suoi, quando era solo.

E tutto era filato liscio fino a quel maledetto sabato.

Ora Gunnar sentiva su di sé gli occhi dell’umano. L’umano che parlottava sommessamente.

Rimase rigido tutto il tempo, in un paio di occasioni implose una scoreggia. E pregò Odino di non farlo accedere così presto al Walhalla, non aveva ancora voglia di conoscere tutte le pantegane morte in battaglia. Il walhalla, il cibo, la birra e le vergini potevano ancora fare a meno di Gunnar.

Il telefono di Thomas squillò, Gunnar tirò un sospiro di sollievo, poteva rilassarsi 5 minuti. Era di sicuro quella vacca dalle origini nordiche che l’aveva convinto a comprarlo, strappandolo al suo benessere. Infatti, era lei. Chiacchierarono per un buon quarto d’ora e Gunnar ne approfittò per far rotolare delle cacchine, scoreggiare soffusamente e rosicchiare briciole di patatine senza attirare l’attenzione.

Il viaggio riprese. Thomas era ormai sulla via del ritorno. Non aveva fatto parola della pantegana a Olga, sarebbe stato preso per il culo per le prossime ere geologiche, la stronza avrebbe raccontato la cosa agli amici, sarebbe diventato lo zimbello di tutta Jesi. Già lo sfottevano per quella collottola che aveva, grassa e spessa come cotica di maiale e per i suoi improvvisi attacchi di sonno.

Ormai non pensava più a Gunnar. Sarà stato lo scherzo della stanchezza – pensava Thomas – ho fatto la mattina questa settimana…avrò piegato quella coda soprappensiero…bah. Sentiamoci Madonna, và.

La strada srotolava un tappeto uniforme e grigio sotto le ruote della Bravo, il sole accompagnava Thomas e Madonna, l’uno perso dietro il significato della parola bukkake, l’altra impegnata a cantargliele a uno che era un mezzo uomo, che aveva rotto le palle a chiedere sempre scusa in tutte le lingue del mondo, che andasse a cagare.

Improvvisamente, i sintomi.

Una diarrea emozionale stava arrivando, Thomas lo sentiva.

Uno tsunami nel culo.

Fitte di puro dolore.

Gorgoglii dalle fogne dell’inferno.

No!

Thomas cercò disperatamente un autogrill, ma già sapeva che non ce n’erano. Come tutte le volte.

Una siepe, un cespuglio, un albero, una stradina secondaria.

Niente!

Inchiodò, le gomme protestarono stridendo.

Thomas era ormai grigio e sudato, aveva ridotto l’ano ad una fessura, come l’occhio del gatto che si trovi improvvisamente a fissare un fascio di luce.

Aprì il vano portaoggetti, rovistò alla cieca, ballando sulla gambe, come in un rito woodoo che allontanasse la cascata di merda.

Niente carta igienica!

Ma cazzo! L’aveva presa stamattina, ricordava esattamente che…Gunnar! Guardò Gunnar. Gunnar cercò di sembrare più finto che mai. Thomas lo prese di scatto strizzandolo e uscì dall’abitacolo.

Gunnar trattenne il fiato.

- Mi ha scoperto! Ha capito che sono vivo! Ho mangiato la sua carta igienica, cazzo che dovevo fare?! Avevo fame, è da ieri che non tocco niente! Adesso mi svuota! Odino, Odino mio…

Thomas si calò i pantaloni in un nanosecondo, si aprirono le cateratte del culo, passò un camion che suonò OONK! e tutto finì in un attimo.

Una gettata bruciante e marrone.

Ormai svuotato e liberato, Thomas riprese fiato. Sentiva l’arietta fresca che gli soffiava sulle chiappe. Se la gustò un istante, poi prese Gunnar e ci si pulì il culo.

Lo rimirò dopo l’operazione, constatò che non era molto sporco, lo strofinò per terra e, tenendolo per la coda, se ne ritornò in macchina, a passo lento, rilassato. La tempesta era passata.

Aprì il cofano, avvolse la pantegana in una busta di plastica e le sussurrò parole dolci. – Scusa, bella. Mi dispiace. A casa ti pulirò bene bene. Non succederà più. Sorry. Je suis désolé.

E ripartirono.

Gunnar rimase sotto shock per quasi tutto il viaggio. Ogni tanto si assopiva, ma l’immagine al ralenti del culo sporco di Thomas che si avvicinava alla sua faccia lo svegliava di soprassalto.

A fine viaggio, nonostante tutto, sorrise. E dire che suo padre gli aveva detto che non c’era niente da vedere sopra la fogna…

L’indomani giaceva steso sul balcone della tana dell’umano. Era pulito, anche se aveva passato una brutta mezz’ora a rotolare in un macchinario pieno d’acqua e schiuma profumata. Aveva dovuto trattenere il fiato, ma per lui ormai era diventato facile.

S’immaginò di tornare nella fogna di Stoccolma e di scovare suo padre. E prima di sfondargli il costato con un calcio gli avrebbe detto:

- Niente oltre la fogna, eh, papà? NIENTE?

E un culo sporco di merda ti pare niente!?…

Poi guardò giù. Il giardino curato, il sole nel cielo, una certa frescura, odore di cibo, musica in lontano sottofondo, ancor più lontane le risate cristalline e le fugaci bestemmie degli umani.

Nessuna fogna cupa all’orizzonte..

E Gunnar rise di cuore, le lacrime agli occhi, quelli veri.



Inno alla bellezza




Se c'è del marcio nel regno di Danimarca, non è certo Mads Mikkelsen...

venerdì 27 febbraio 2009

Le folli recensioni di Olga - Federiko Moccia


Messo da parte ogni indugio e grazie a Big Head (sottolineo che lui non l'ha letto, gli è rimasta ancora un briciolo di quella... quella cosa... ah, ecco: dignità, mi sfuggiva il nome), mi sono detta: in queste giornate disoccupate dove c'è veramente tempo per tutto, facciamo una cosa: leggerezza, lievità, allegria e disincanto a gogò. Ovvero, evitiamo di pensare... E giuro sulle ceneri di nonno Vladimir Rasputin Smorzakan detto "Il folle satiro della Nevskji Prospekt" che ho accantonato ogni pregiudizio e mi sono cacciata nella lettura di questo libro con le migliori intenzioni. Anche perché nella mia mente elastica come una Big Babol spiaccicata sull'asfalto rovente di un pomeriggio di luglio riposa l'idea che non bisogna farsi preconcetti e che tutti e tutto meritino attenzione, almeno una volta nella vita
In più, come aspirante scrittrice, volevo carpire i segreti del successo di questo scrittore pacioso e perennemente cappellinato.

Ho mollato a pag. 17.
Per tutto il tempo della breve lettura mi rimbombavano solo due cose in testa: la BMW più volte citata non so per quale motivo (e sorvolo su tutti gli altri marchi, per pura pietas) e la frase che il protagonista Alessandro rivolge alla moglie che l'ha lasciato : "ti disprezzo sentimentalmente".
Ti disprezzo sentimentalmente?!

Ok, facciamo così: io ci riprovo e adesso - sì, proprio ora - riapro il file del libro e... un momento! Cos'è questo post it sulla mia scrivania?

1 filoncino di pane
2 uova
bocconcini di pollo per gatti
carta igienica
p.s
passa alle poste e paga l'affitto e soprattutto porta il resto, grazie
Mamma

Scusa, Federiko, ma questa lettura è ben più interessante. Coinvolgente, dinamica, grammaticalmente corretta, dio, non resisto!

p.s.
ho letto alcune recensioni di "Scusa ma ti chiamo libro" e una mi ha colpito: un lettore diceva che "Moccia è di quelli che scrive per piacere agli altri".
Ecco, Moccia: per piacere, smettila. I soldi li hai fatti, perché accanirti?
Quindi, è fuori discussione che io possa leggere Amore 14...


Amore nero

Galleggiamo in mare di acqua e sale
tra tonde pareti di vetro, ci pare normale
Non parliamo, non ci muoviamo, siamo olive
ma siamo creature… siamo tutte vive.

Vero è infatti il nostro cuore di legno
nera la pelle, per un oscuro disegno
In questo mare di sale, noi si langue
ma d’olio saporito è il nostro sangue.

Tutte nere, tutte uguali in apparenza
ma una è speciale, è la mia sofferenza
Dolore l’amore per me comporta
lei sa o forse no, ma poco importa.

Non posso muovermi, scendere da lei
per farmi notare, cosa non farei!
Destino, mi hai fatto impotente
perché mi odi? non ho fatto niente!

La amo dall’alto e posso solo guardarla
lei non si muove, non mi nota, non mi parla
È solo nel dolore che può essere capito
il disumano, feroce concetto d’infinito.

Ecco allora che, per sfuggire alla triste sorte
di un amore non vissuto, s’invoca la morte
È nella morte la speranza di una scappatoia
se questa vita è dolore, allora la morte è gioia.

Vivo immobile, non posso suicidarmi
solo alla speranza posso affidarmi
Ma proprio quando tutto sembra perduto
sento sopra di me un rumore conosciuto.

Viene ora il dio di carne col tridente
scoperchia il cielo di metallo lucente.
Pare che di noi egli non sia mai sazio
incurante come fato davanti allo strazio.

Un occhio nero silente sulla nera massa
subito adocchia un’oliva bella grassa
E ora…prende lei… Non puoi farmi questo!
Suvvia, prendi anche me, ma fai presto!

Prego dio d’infilzarmi il forcone cromato
lo supplico di dar fine al mio dolore salato
Gli prometto in cambio speciale sapore,
perché ha speciale sapore chi vive d’ amore.

Voglio seguire lei, in quel misterioso buco
scenderle dietro in quel tunnel di muco
E confidando per una volta nella corrente amica
tenterò di raggiungerla in men che non si dica.

Cercherò di avvicinarla, azzarderei un tocco
la affiancherò nella corsa verso lo sbocco
Mi scioglierò con lei in un umido amplesso
sperando nella sosta in un buio recesso.

Mescolate in una tenera poltiglia
finalmente saremo nuova famiglia
Evacueremo insieme dal tunnel del dio umano
e verso il mare dell’aldilà ci daremo la "mano".

(Olga)

La prossima volta tocca ai peperoni... un amore pesante. e per la poesia sull'orgia aspetto l'ispirazione da caponata di cozze... mmhh, no, le cozze non trombano, mi dicono.

Ah, beh. Allora, facciamo che le cozze si mascherano e che quindi possono trombare pure loro.

La maschera, nella sua infinita bugia, è pura democrazia.

(Basta col delirio e basta con le olive, Olga. Ti si ripropongono...)

Cicale

- Anna ho dovuto tenerla ben ferma, si divincolava tutta, pareva un pesce all'amo.
- Eh, certe cose sono sempre schifose a farsi, ma tanto a qualcuno tocca.
- Vedi, non è che mi scocci farlo, è che è una fatica, non si lasciano ammazzare facilmente, c’è da capirle, povere bestie.
- Per quanto ne hai, ancora?
- Me ne sono rimaste tre, per ora. Vanda è la più dura, sarà che ormai è anziana, ha visto morirne altre, con lei dovrò essere più accorto e sveglio.
- E come ti abitui a tutto quel sangue?
- Mi concentro sul colore, non sulla sostanza. Sul rosso. Faccio finta che sia un liquido qualsiasi, che so, vernice, smalto. E poi, spesso, non si vede neanche una goccia. Dipende dalla tecnica.
- Bah, io vorrei esser come te, ma ancora non ce la faccio. Ho provato una volta, ma gli occhi, i suoi occhi… mi guardavano e mi hanno giudicato, mi sento maledetto a vita da quella volta.
- E poi i lamenti, quei versi disumani, ti capisco. Ma ognuno ha un ruolo, sento che il mio è questo.
- Te lo sei scelto tu, però.
- Sì, e non mi lamento. Così uccido la noia. O almeno m’illudo, la noia è l’unica cosa che puoi uccidere solo per un po’, si reincarna sempre, è più forte di me, della morte.
- Senti, dovessi aver bisogno del tuo aiuto…
- Chiamami, ci penso io. Ma imparerai a far da solo, ho bisogno di aiuto al più presto.
- Certo.
La ragazza era seduta di schiena contro il tronco del pino. Aveva appena colto la conversazione tra i due vecchi seduti sulla panchina dietro l’albero e per un istante rimase zitta, il cervello spento. Fino ad un attimo prima era concentrata sulla musica che aveva usato come antidoto contro il maledetto suono delle cicale.
Come odiava quelle bestie, erano veri e propri acciarini che, una volta iniziati a sfregare, incendiavano l’aria. Era una constatazione che le derivava dall’esperienza, un automatismo acquisito da una ventina di estati: quando frinivano le cicale, il caldo aumentava. Era come d’inverno, quando la vista dei primi pettirossi le faceva sentire più freddo.Seduta per terra sopra ad un plaid, ancora nelle orecchie uno stralcio di musica e le parole dei due vecchi, si accese una sigaretta, per reagire.
Accendersi una sigaretta, anche questo era un automatismo che la sorprendeva sempre.
Si accese una sigaretta il giorno in cui la madre le comunicò la separazione; il giorno in cui lesse il risultato degli esami di maturità, il momento esatto in cui il suo ragazzo la lasciò. Ogni volta rimaneva senza parole, il flusso ininterrotto del suo ciclo mentale si arrestava di colpo, la mano all’improvviso aveva un dito in più, pieno di tabacco.
Per fare qualcosa, per comunicare di non essere morta, per reagire e far vedere di esserci, subito, si accendeva una sigaretta. Odiava l’idea di rimanere imbambolata. Che gli altri la vedessero tardare sugli eventi e le parole. La sigaretta accesa faceva ripartire il nastro dei pensieri e delle parole.
Si spostò un attimo, il sedere indolenzito, e si voltò verso la panchina.
Due normalissimi vecchi. E certo, cosa si aspettava?
Due vecchi che parlavano di morte, uno era un assassino. Prima aveva ucciso questa Anna, poi sarebbe toccato a Vanda.
Nella mente le passarono tutte le parole che aveva sentito sulle persone che un giorno si scoprono assassini, persone normali. Chi l’avrebbe mai detto, una così cara persona. Chi, assassino lui, con quella faccia? A me non ha mai dato da pensare…

Guardando i due vecchi, anche lei si sorprese a pensare tutte queste cose. E si maledì, perché erano stupide affermazioni di circostanza. Uno dei vecchi, guarda un po’, somigliava pure a suo nonno paterno, pace all’anima sua. Un vecchio che non aveva mai ammazzato neanche una mosca.
Una mosca.
Beh, certo. I due vecchi parlavano di animali, stupida che sono. Erano due contadini o due pensionati con l’hobby dell'orticello e di qualche animale da cortile. Anna, Vanda… sicuramente il vecchio con l’hobby dell’uccisione aveva quella stupida mania di chiamare per nome le proprie bestie. Erano oche? Vacche? Galline, capre? La ragazza decise che ne aveva abbastanza di pensare a qual dialogo sinistro, prese un libro dalla borsa, in cerca di un altro argomento per neutralizzare quei discorsi di morte, si rimise le cuffie e fece ripartire la musica.
Il tempo scorreva lento, le cose rimanevano ferme in quell’afosa giornata d’estate, le cicale, disponendo di un unico strumento e di una sola nota, non potevano che inneggiare all’immobilità. Le cicale celebravano a suon di muscoli il tempo che non voleva farsi beccare a scorrere. E così, passò un’ora. Due ore...
Poi, quando il dolore al sedere arrivò all’osso, la ragazza raccolse il plaid, lo scrollò e se ne andò, un’ultima occhiata a quei due vecchi strani, assurdi. Immaginò per un attimo l’assassino di animali al suo ritorno a casa, intento ad organizzare la morte di Vanda, quel povero animale. Per un attimo le venne da ridere, quel dialogo inizialmente le aveva provocato un brivido, sarà per l’abitudine alla cronaca sbattuta quotidianamente in faccia da ogni parte. Sarà che è più facile leggere di persone ammazzate per follia o per noia che di animali uccisi per nutrimento. Assurdo.
S’incamminò, accendendosi un’altra sigaretta, togliendosi dal quadro immobile e senza sorprese dei giardini pubblici.

- Perché dobbiamo sembrare proprio due vecchi? Tra le tante sembianze da assumere…
- Vedi, l’importante è ingannare, ingannare per tranquillizzare. Per lavorare con calma e per il gusto, diciamo così, della sorpresa. È un piacere che in fondo facciamo ai destinati… ad alcuni, perlomeno.
- Vero, quante cose devo ancora imparare, mi chiedo se diventerò mai un bravo aiutante, per te.
- Col tempo, col tempo… intanto, guarda e impara. Anche se vecchio fuori, la mia anima è sempre giovane e immortale. Occorre un’anima immortale per dimostrare ad ogni istante che la vita umana è mortale. Inoltre…
- Inoltre?
- D’estate, con questo caldo e le odiose cicale che ti martellano le orecchie facendoti sudare di più, meglio sandali, canotta e braghe corte che mantello, cappuccio nero e falce! Vuoi mettere?
- Maestro, mi farai morire dal ridere!
- Bel modo di morire, se un giorno vorrai… ma è presto, per te. Andiamo, Vanda non lo sa, ma ci sta aspettando. Maledette cicale...

giovedì 26 febbraio 2009

Lo scanno

Ho testato le potenzialità della mia nuova stampante/fotocopiatrice/scanner/tagliaerba/depilatore elettrico/nonché caffettiera HP e mi sono detta: è da poco passato Carnevale, mettiamo una foto di Olga 4enne vestita da viziosa cortigiana del '700 che regge tra le braccia - strangolandolo - il povero micio nero di nonna Angela.
Tutto ok. 70 euri spesi bene.
Ho poi testato le potenzialità della vecchia sognatrice/precaria/solitaria/impedita nonché arretrata Olga su "modifica foto" e il risultato... eccolo.
Niente è ok.
L'HP è in garanzia e in caso di malfunzionamento potrei rimediare.
Olga, invece, è irrimediabilmente fallata e fuori garanzia.
Così è.

Le solitarie recensioni di Olga - Richard Yates


Venerdì scorso un incontro casuale in libreria con un paio di amici mi ha portato a comprare questo libro. Una coincidenza, perché mi trovavo sola, in quella libreria, sola in mezzo a tante parole, sola a riflettere sulla mia solitudine e... tutte cazzate: stavo lì, indecisa se comprarmi "La scopa del sistema" di Wallace o "Amore 14" di Moccia! E indovinate cosa ho acquistato? Esatto, mi dispiace, ma dopo aver lasciato a pag 17 "Scusa ma ti chiamo amore" (non ho speso una lira, grazie a Big Head, tiè!), e aver ringraziato gli dèi di non avermi dato il talento e la calvizie di Moccia, mi sono tuffata su David, il mio mentore.
E, per sfregio alla mia solitudine, ho accettato il consiglio di quel ragazzo e mi sono comprata un po' di solitudine in più. Giusto perché di solitudine non si è mai sazi.
Ma meglio la solitudine che certa robaccia sull'amore stereotipato e pieno di cliché e di oggetti di marca e di errori di sintassi...

Il tema è universale, la solitudine.
Non male il modo in cui Yates tratta il tema della solitudine, soprattutto nel disegnarne i protagonisti, ma sulle storie mi è rimasto l'amaro in bocca. Mi viene in mente la solita immagine di me che chatto con Hugh Jackman e poi mi ritrovo a flirtare controvoglia con Calderoli (qui urge un supporto psicologico accompagnato dai filtri della dea Chimica, mi sa, basta co' sti due...). Finita una storia, rimanevo lì a chiedermi: -Embé? Tutto qua?
Certi racconti di Yates sembrano quelle disperate ore di petting che finiscono poi con lui che ti dice: - Mah, fermiamoci qui, tra poco inizia la Champions, devo andare.
E tu che rimani lì a bocca aperta ( e forse ancora occupata...).
Ovvero, 11 protagonisti eccezionali in storie non sempre esaltanti.
Ma forse la colpa non è di Yates, è mia: chiedo troppo a queste 11 storie, chiedo di arrivare fino in fondo, quando invece mi dimentico che a volte del sano e inconcludente petting è comunque una bellissima esperienza (sì, certo, mi ricorda un po' la favola della volpe e l'uva, ma glissiamo...).

Bellissimo però il racconto finale, "Costruttori", ma soprattutto perché lì ci vedo una solitudine a me molto cara: quella dello scrittore. E la chiosa:
"E dove sono le finestre? Da dove entra la luce?
Bernie, vecchio amico, perdonami, ma per questa domanda non ho la risposta. Non sono neppure sicuro che questa particolare casa abbia delle finestre. Forse la luce deve cercar di penetrare come può, attraverso qulche fessura, qualche buco lasciato dall'imperizia del costruttore. Se è così, sta' sicuro che il primo ad esserne umiliato sono proprio io. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi"
(R. Yates, Costruttori, da Undici solitudini)
Pura luce.

Io so che a volte sono un muro circondato da muri. E che per fare entrare un po' di luce, devo per forza aprire una breccia o almeno provocare una crepa.

p.s.
a quel ragazzo ho consigliato Dave Eggers, "L'opera struggente di un formidabile genio", e lui l'ha comprato. Ora, non so se è coincidenza, ma anche il libro di Eggers è stato petting, per me. Niente orgasmi. E in più, è come fare petting con uno che si crede Wallace (Jackman) e invece è solo Eggers (Calderoli). Mi sa che perderò un amico ... e vai di solitudine! Inconsciamente coerente come sempre, Olga...

mercoledì 25 febbraio 2009

Comunicazioni di servizio

Oggi privatizzo il blog.
So che ci sono persone che rimarranno deluse e altre che non batteranno ciglio. Ma so anche che ci sono persone che non vorrei mi leggessero e altre che non dovrebbero leggermi; inoltre, ho deciso di "tutelare" i miei racconti e le mie poesie, visto mai...

Dato che in questo blog mi denudo un pochino, (la cosa mi è stata fatta notare e devo riconoscere a posteriori che forse è meglio andarci cauti), voglio poter scegliere i miei guardoni! Dunque, se qualcuno di voi vuole l'accesso o semplicemente inviarmi un cordiale vaffanculo, mandi una mail direttamente a me.
E una volta avuto l'accesso, quel che leggete tenetevelo per voi.
Thanks a lot.

A mattoncini


La Maison en petits cubes del giapponese Kunio Kato ha vinto l'Oscar come miglior corto d'animazione, quest'anno.
Guardatelo (se nel frattempo Youtube non lo sega...).
Poesia pura.
Non sono abituata alla dolcezza, questo spiega l'incanto di questo gioiellino su di me.
Vero, e solo oggi mi accorgo che l'assenza o la scarsa presenza di dolcezza nella mia vita a volte rappresenta un problema.
La dolcezza non è un sentimento facile.
Ed è più difficile trovarla quando - come in questi giorni, ora - ne ho più bisogno.
Allora mi dico che dovrei essere io, per prima, a costruirmi la dolcezza, affinché gli altri possano vederla e gustarla.
E allora eccomi, con la cazzuola in mano e un mattoncino nell'altra.

lunedì 23 febbraio 2009

domenica 22 febbraio 2009

Oscar 2009

"Vincerò?"

Faccio il tifo per te, Heath, e per il tuo splendido Joker!

Lo strano caso di Bergman e del cane che cagava davanti al portone di casa Spinoza

(Josef Koudelka)

Stavo meditando su come chiedere scusa a Spinoza e Tyber per aver combinato un casino tremendo, ieri sera, a casa loro. E' colpa mia se stamattina i due poveracci si alzeranno e sentiranno aleggiare per tutta la casa un insolito odore di merda di cane. E' colpa mia se Tyber ha dovuto immergere le proprie manine nell'acqua della tazza durante la riprovevole operazione "salva la tazza" (Olga, cretina, non lo sai che lo Scottex non va giù e il cesso s'intasa?!).
E' colpa mia se stamattina, quando andranno in bagno a lavarsi la faccia avranno la brutta sorpresa di scoprire che per lavare il mio scarpino gli ho pure tappato il lavabo... (ma che ca*** avrà mangiato, quel cane?!).
Sicuramente non basterà aver prestato 4 film del grande Bergman per ottenere il perdono, vero cari?
Quindi volevo che che le mie scuse suonassero originali e che rivelassero la sincerità dei miei intenti.
E mi sono ricordata - strano, perchè la domenica mattina per me è sempre avvolta nella nebbia - che ad un certo punto è saltato fuori nei discorsi un certo Josef Koudelka, del quale Spinoza mi ha tessuto le lodi.
E sfrucugliando tra le sue bellissime foto in modo del tutto casuale, ho trovato il modo per farmi perdonare: Spinoza! Tyber! Ho trovato il colpevole! E' questo orrendo cagnaccio che vi ha cagato davanti casa, ne sono certa!
... No, un momento: forse, viste le dimensioni della cagata e del danno a voi arrecato, secondo me o quel cane era costipato da giorni e si è liberato improvvisamente davanti al vostro portone oppure davanti casa vostra la gente ci porta a cagare i bisonti.

E comunque riflettete bene: quando vi ricapita un'amica che vi porta in casa Bergman e merda, contemporaneamente? Sono cose che fanno pensare... nel frattempo, cancellate pure i miei recapiti, non m'offendo.
Quando mi ci metto, so essere proprio una merda...

(P.S.
Questo post è una merda, non pestatelo. Non pestatemi.)

sabato 21 febbraio 2009

Una macchina da favola


Stefanino varcò la soglia e si ritrovò nell'immenso salone. Non c'era nessuno, a parte una coppia in lontananza, intenta a gironzolare attorno ad una vettura grigia, ma quel luogo sembrava comunque deserto. Lo sguardo di Stefanino venne catturato dalla lucentezza del pavimento, e Stefanino rimase per un po' fermo a contemplare affascinato per alcuni istanti l'immagine riflessa di sé che il lucido marmo gli restituiva. A distoglierlo dai suoi pensieri venne un uomo dal largo sorriso e Stefanino vi scorse subito la disponibilità e il calore. Gli occhi dell'uomo erano grandi e scintillanti. Proprio come il pavimento del salone.
- Serve aiuto? - chiese l'uomo, la cui eleganza discreta faceva il paio con la sua voce calma e sicura.
- Voglio una macchina nuova, - disse Stefanino - mi fa vedere qualcosa?
- Sono qui per questo! - dichiarò il venditore - e sono sicuro che qui troverà la macchina dei suoi sogni. Mi segua.
Nel percorrere il lungo tragitto verso il padiglione di esposizione, Stefanino ebbe un moto di ripensamento, frutto di un improvviso attacco di nostalgia: aveva da poco venduto la sua Strange Lover e ne era uscito fuori a pezzi, psicologicamente. Non era stata una scelta, piuttosto si era visto obbligato a darla via. La Strange, che dea di macchina! Enorme, potente, un'astronave da comandare semplicemente spingendo una serie di pulsanti colorati, e quella voce che rispondeva ai comandi o suggeriva qualcosa, anche se meccanica, gli era sempre parsa calda, materna. La Strange era una macchina miracolosa: ad esempio, la radio. Quando la teneva accesa durante i suoi lunghi viaggi, Stefanino non aveva mai incappato in una canzone brutta: la macchina conosceva i suoi gusti e selezionava di continuo stazioni e frequenze al solo scopo di fargli sentire le canzoni migliori, e ogni volta erano quelle adatte ai pensieri che Stefanino aveva in testa e che faceva scorrere insieme all'auto. E che dire delle innumerevoli funzioni? La Strange era veramente magica, in questo. Ad esempio, la temperatura: la Strange non la indicava semplicemente: la stabiliva. E così poteva succedere che se Stefanino aveva improvvisamente caldo, la temperatura calava di botto, intorno ai dieci gradi. E questo spiegava perché a volte, in pieno luglio, sui marciapiedi della città la gente in canotta, calzoncini corti e infradito, improvvisamente incrociasse le braccia e se le sfregasse, rabbrividendo. E viceversa, d'inverno in certe giornate si poteva vedere sfrecciare la Strange sotto un sole d'agosto, gli alberi stranamente rigonfi di foglie e frutti e la gente bagnata di sudore che si fermava di colpo a togliersi guanti, cappello, sciarpa e cappotto.
E i sedili? la loro morbida pelle lo invitava di frequente ad abbandonarsi come dentro al letto più comodo del mondo e Stefanino più di una volta si era ritrovato a galleggiare nel tranquillo e beato mondo di un sonno leggero, ma tanto non aveva mai di che preoccuparsi: la Strange, in quelle occasioni, inseriva il pilota automatico e si premurava di portare Stefanino a casa o in qualsiasi altro posto, sano e salvo. Ma poi erano sopraggiunti i problemi, la macchina era diventata un po' troppo impegnativa per Stefanino: parafrasando il nonno dell'Uomo Ragno, "da grandi macchine derivano grandi responsabilità". Pareva che quella macchina, così imponente, gli chiedesse ogni giorno più energia e contemporaneamente, Stefanino sentiva che la magia seduttiva dell'auto andava scemando, piano piano.
- Mi segue? - la voce dell'addetto alle vendite lo scosse dai pensieri e Stefanino quasi sussultò, - qua abbiamo delle Ferrari.
- Mah, non so: la Ferrari mi pare impegnativa, allora mi tenevo la Strange Lover...
- Ma queste non sono Ferrari qualsiasi. Dia un'occhiata a quella, per esempio.
Stefanino seguì lo sguardo del venditore e scorse un lungo e fiammante bolide rosso, non aveva mai visto quel modello, era pieno di curve, come un...
- Ferrari Violino, modello unico. Salga, la metta in moto.
- Posso? - chiese esitante Stefanino; la macchina lo seduceva, le curve, la lucentezza e soprattutto il nome, ma non chiese niente. Mise in moto, ma laddove si sarebbe aspettato il ruggito meccanico tipico di una Ferrari, trovò e assaporò il dolce e malinconico suono di un violino solitario.
- Ma...! - non seppe che aggiungere, e il venditore si chinò e gli sussurrò: - Spinga il pulsante dell'acceleratore, sì quello là, quel bottone in mogano.
Stefanino ubbidì e il suono malinconico si trasformò in un'allegra sonata, le note guizzanti nell'aria come pesciolini argentei e fulminei. Non seppe trattenere un sorriso.
Il venditore lo ricambiò e gli disse: - Non è un'auto qualunque, dia retta. E se poi non è la musica la sua musa, provi ques'altra Ferrari: la Rodari. Quando la si mette in moto, al posto del rombo del motore, escono fuori splendide filastrocche! Stefanino osservò l'altra auto, un bel modello rettangolare la cui vernice sembrava la pelle di un libro. Ma non osò avvicinarsi.
- Sa, non servirebbe a convincermi: io sono il classico tipo che sogna una Ferrari ma che può permettersi solo una Ferraccio, se esiste...
Il venditore rise educatamente alla battuta, ma dopo un breve attimo di pausa, gli toccò il gomito e gli disse, in tono confidenziale:- La sua passione sono i fuoristrada? Sa, la gamma delle Lover non è tutta costosa o impegnativa come la sua vecchia Strange. Mi permetta di farle qualche esempio: c'è la Jessica Lange Lover, un pochino femminile, diciamo, piccola e tondeggiante, ma pratica e confortevole... poi c'è la più dinamica Zoolander, ma qui bisogna vedere se lei è un patito dell'estetica. La Zoolander è "bella, bella, bella in modo assurdo", come recita lo slogan della pubblicità in tv; va un casino quest'anno, ma personalmente la trovo un po' lenta e i consumi... beh, un po' eccessivi. Ma esiste anche la Land Cover. Guardi il dépliant: è per chi ama cambiare ogni giorno l'aspetto della propria auto. Infatti, come vede, ha una vasta scelta di cover intercambiabili coloratissime e... guardi qua che colori!
Ma Stefanino non ascoltava più: il suo sguardo, da qualche secondo, aveva preso a puntare un oggetto nel punto più lontano del padiglione.
- Senta, prima ho intravisto una coppia con un bimbo: per caso il bambino aveva con sé una macchinina verde? Credo che l'abbia dimenticata. E' là, vede?
Il venditore scorse l'oggetto e il sorriso sparì.
- Quella non è un giocattolo, ma uno splendido esemplare di MiniMicroMinor! Che fa, sfotte?
- Ma è minuscola, minima, microscopica... obiettò Stefanino con aria perplessa.
- Non si fermi alle apparenze, la provi. Poi mi dirà.
Stefanino aprì lo sportello e quasi non riusciva a infilare la gamba destra nell'abitacolo, ma il venditore lo fermò: - Faccia piano, non entri così, a gamba tesa. la pieghi, con calma, però. Faccia come se stesse infilando un bel paio di pantaloni. Ecco, così. Bravo. Visto? Le va su misura.
Stefanino ignorò la voce del venditore, perché nel frattempo era avvenuta una specie di magia: la MiniMicroMinor era più spaziosa di una stiva di un mercantile dopo lo scalo. Stefanino spalancò gli occhi: incredibile, più spaziosa addirittura della sua Strange! Il sedile, una poltrona dove affondare! E che panorama, da quei vetri grossi come vetrate di un negozio! E dire che la Strange era talmente grossa che aveva anche un corridoio e un caminetto perfettamente funzionante tra i sedili anteriori e posteriori. Ma questa... questa macchina era una vera e propria magia!
- Posso fare un giro? - chiese Stefanino, la voce che, acuta, ora pareva quello di un bambino di fronte ad una bici nuova fiammante ultimo modello.
- Certo, io l'aspetto qui. Mi lasci solo la carta d'identità, sa...
- Certo, certo - lo interruppe Stefanino, impaziente di mettersi su strada su quella strana auto verde bottiglia.

Una volta uscito in strada, Stefanino annotò alcuni particolari, come durante un test: di vantaggioso c'era la praticità, certo, la si poteva parcheggiare anche dentro una ciabatta. Il motore era silenzioso, quasi un soffio. E la strumentazione, ridotta all'osso, finalmente gli fece capire che la semplicità era di gran lunga più rilassante di tutti quei pulsanti e bottoni che facevano dell'abitacolo della Strange una sorta di cielo pieno di stelle. Belle, però a volte gli mettevano ansia, quelle luci che chiedevano costantemente attenzione. Unica pecca, finora, gli ammortizzatori: Aveva appena schiacciato con le ruote un sasso non più grande di una noce, e il sobbalzo della vettura gli assestò un calcio sulla schiena e Stefanino corrucciò la fronte. Mhh... non so... stava pensando quando d'improvviso, distratto dal suo test interiore, un camion gli si parò di fronte, contromano. Stefanino non fece in tempo a reagire, anzi, l'unica cosa che fece fu un gesto istintivo: lasciò il volante e si coprì gli occhi con le braccia incrociate e urlò. L'urlo venne coperto dal lungo suono di protesta del clacson del camion.
Per un istante, Stefanino vide nero sopra di sé. Poi, con la macchina ferma in mezzo alla strada deserta, si guardò le mani e poi tutt'attorno. Era vivo. Come era potuto accadere? Scese a constatare i danni: niente di niente. Sempre più perplesso, Stefanino ad un tratto capì: la macchina si era rimpicciolita ed era passata sotto il camion, ecco perché quel buio... Stefanino iniziò a tremare, ma presto si calmò. Fece due passi attorno alla MiniMicroMinor, prese due lunghe boccate d'aria per recuperare il controllo di sé e risalì in macchina.
Dentro, tutto sembrava normale, ma durò poco: di nuovo, piano piano quell'abitacolo tornò ad essere spazio. Spazio infinito.

Cinque minuti dopo, Stefanino rientrò dal concessionario.
Il venditore, appoggiato alla vetrata e fumando una sigaretta, lo accolse con il solito sorriso. Lo stava aspettando.
- Allora?
- Allora, è mia! Questa macchina è una favola! - Disse Stefanino visibilmente emozionato.
- Beh, è vero. E mi creda, la stupirà sempre di più. Gliela metto in una busta?

- No, tanto la butterebbe via subito, sa come sono i bambini, non si trattengono... vero Stefanino? Guardi, ci sta già giocando...
- Eh, sì - sorrise il commesso - stanno lì ore e ore facendo andare su e giù quelle macchinine e Dio solo sa cosa passi loro per la testa!
- Sì, e il mio Stefanino ci passa le giornate intere, con questi modellini. A volte me lo ritrovo addromentato, la sera, con la macchinina in mano. Ma ogni volta si stufa, ne vuole una diversa, L'ultima volta il papà gli ha regalato un fuoristrada, avrebbe dovuto vederlo! Era al settimo cielo! Ma poi... bah, non si accontenta mai.
- Buon segno, signora: non accontentarsi mai, nel limite del possibile.
- Vero. Grazie e arrivederci. Andiamo, Stefanino.

Mamma e figlio uscirono mano nella mano e si inoltrarono nel parcheggio, che a quell'ora era quasi tutto occupato. Ma Stefanino non notò alcuna macchina. I suoi grandi occhi scuri non vedevano che lei, la favolosa MiniMicroMinor verde bottiglia, parcheggiata nel palmo della sua mano destra. Sorrideva e la fissava La fissava e sorrideva. Sua mamma, guardandolo seria con la coda dell'occhio, scosse in maniera impercettibile la testa ma poi, alla fine, sorrise pure lei.