Lui si avvicina giusto un attimo prima che io m’infili il cappotto e prenda la borsa. Gli altri sono ancora immersi nella conversazione di pochi minuti fa, tranne le due ragazze che si sono appena alzate dalla tavola in silenzio e che ora si gustano uno zapping alla tele, sedute, o meglio, mezze sbracate sul divano.
Lui mi si avvicina e mi sussurra: - Non ti ho detto che stanotte ti ho sognata.
- Ah sì? - faccio io, sorpresa e incuriosita - Che sogno ?
E lui, con lo stesso tono di voce tranquillo e pacato tenuto per tutta la sera con me e con i nostri amici: - Bah, non lo ricordo tutto, ma eravamo ad una cena, tipo questa. Non ricordo dove, era un ristorante che penso di non conoscere e forse non esiste. E tu ad un certo punto ti sei alzata dicendo che te ne tornavi a casa, eri stanca e volevi metterti a letto. Ti ho visto prendere la borsa e avvicinarti all’appendiabiti. Come adesso, ti stavi infilando il cappotto. Ecco perché – sorrise – sono venuto a dirti del sogno. Vederti prendere il cappotto mi ha fatto venire in mente il sogno, all'improvviso.
Ah! - gli ho sorriso di rimando - E poi, che succede nel sogno?
- Succede che mi avvicino a te e dalla tasca sinistra dei jeans tiro fuori una foto e ti dico: - ti sei sempre dimenticata questa foto, sono anni che ce l’ho in casa. È la foto di quando eri guerriera.
- Guerriera? – alzo un sopracciglio e anche un po’ la voce; un nostro amico si volta verso di noi, come se prima non si fosse accorto che io e lui stessimo parlando.
Lui riprende: - Sì, guerriera. Tu guardi la foto e nella foto indossi un elmo dorato, ma forse era bronzo – non ricordo le sfumature - e hai una lancia che tieni conficcata nel terreno e sulla quale ti appoggi sorridendo.
- Bella immagine! - gli faccio. Lui continua: - Il sogno finisce che ti do la foto e tu la prendi senza dire niente, ma sorridi e mi ringrazi e poi te ne vai. Ah no, ora ricordo: prima di andartene mi hai detto che ti eri dimenticata di quando fosti guerriera.
Mi viene in mente una frase ironica, una stupida battuta per congedarmi, lo faccio sempre, con lui e con tutti gli altri: se mi sono dimenticata di essere guerriera, non dimentico mai di essere comunque una buffona. Ma stavolta non mi esce niente. Rimaniamo un attimo a fissarci le nostre pupille scure e poi saluto lui e gli altri.
Cammino lungo il corridoio in assoluta assenza. Mi ritorna in mente la frase pronunciata dal mio amico: la foto di quando eri guerriera. Non mi accorgo di avere un peso e di aver allungato i passi lungo il corridoio, sto lì a cercare di immaginarmi in quella foto, elmo e lancia, io guerriera. Mi pare di essere in trance.
Poi mi dico: va a capire i sogni, non hanno senso e io non ho abbastanza conoscenza e voglia di interpretarli. Lasciamo stare.
Io guerriera, voglio solo abbandonare il campo e tornare a casa, infilarmi il pigiama, stordirmi su internet un pochino e poi addormentarmi. Proprio una serata da guerriera, penso tra me e me, inarcando leggermente il labbro superiore e sorridendo a nessuno, certo, come no...
A casa ci torno a piedi: il mio amico – non quello del sogno, ma quello che ci ha ospitati e sfiancati con una cena non proprio da gente sana – abita a poche centinaia di metri da me e mi piace lasciare casa sua nel cuore della notte o anche solo in tarda serata, perché il tragitto verso casa mia è silenzioso, le luci ferme e non incrocio mai nessuno, quindi posso fare quello che più mi piace: camminare, osservare, pensare e fingere di essere sola al mondo.
Quando rientro, però, annullo ogni mio proposito di intrattenimento: niente internet, mi lavo e mi infilo sotto le coperte. Ho i brividi, stasera il freddo mi ha punto il naso e gli occhi e le dita rimangono ghiacciate per un bel pezzo, anche se dentro il letto m’impegno a sfregare le mani per due minuti buoni. E mentre lo faccio, penso.
La guerriera.
Quando mai lo sono stata? E soprattutto, se lo sono mai stata, quando e perché ho smesso di esserlo? e se fosse un monito, il sogno? un invito a prepararmi al combattimento? Domande senza importanza. Chiudo gli occhi chiedendomi cosa avesse mangiato di così pesante il mio amico, per fare un sogno così strano e con questa osservazione, banale ma divertente, abbandono il mondo razionale e mi addormento.
Il giorno dopo, accendo il computer, apro il file del mio diario e scrivo qualcosa in latino:
Bellatrix.
Si vis pacem para bellum.
Così, senza rifletterci.
Sono sempre stata un disastro in latino, al liceo, ma queste espressioni sono di uso comune, conosco queste parole.
Poi, sulla sezione immagini scrivo Klimt ed esce fuori lei: Pallade Atena.
Gli occhi non umani, certo – guardatela – quasi ciechi con quell’azzurro chiaro, e l’elmo d’oro e la lancia.
Anche qui, ho scritto Klimt senza pensare. Conosco bene Klimt, ho amato molto i suoi dipinti in un’età compresa tra i 16 e i 25 anni, poi nella mia classifica di preferenze è sceso di molti posti. Pallade Atena è a me nota, ma non mi sono mai soffermata su quella figura di donna (dea) dallo sguardo di grandezza e follia. Di disumanità.
E anche questa volta, comunque, lascio correre i pensieri verso altre cose, le incombenze, soprattutto gl’impegni, lefaccende quotidiane e mi metto a scrivere, leggere le notizie, ricevo un paio di telefonate e solo verso l’ora di pranzo mi rendo conto che in casa regna un insolito silenzio. Certo, mia madre avrà avuto un contrattempo, ancora non è rientrata. Anche assorbita dalla lettura e dalla scrittura, avrei comunque sentito il rumore delle chiavi nella toppa, il borbottio di mia madre (borbotta in continuazione. O è convinta di essere sotto una telecamera invisibile o ama parlare molto a se stessa, valla a capire), i rumori in cucina.
Poi, mi viene in mente che in camera sua – nelle altre due librerie dove sono riposti romanzi vecchi, roba sua, e mille ninnoli - ci dev’essere un catalogo di Klimt.
Mi alzo e per poco non inciampo nel gatto che, silenzioso, cerca di attirare la mia attenzione sgusciandomi in perfetto slalom tra i polpacci. Impreco, apro la porta e vedo mia madre con bocca e occhi spalancati ad osservare il soffitto.
In una frazione di tempo non quantificabile per brevità, la mia testa è attraversata da una saetta: - E' morta! E spalanco anch’io occhi e bocca, e per contraccolpo, chiudo lo stomaco e i contraggo i muscoli anali. Rimango paralizzata e quella che poi si avvicina lentamente al letto - col gatto che, entrato dietro di me spicca un sinuoso balzo sul piumone e inizia a camminare su e giù su mia madre - non sono io. Io mi sono fermata sulla sogli della porta, e non posso essere io la stessa che va a toccare mia madre, le scuote una scapola e la chiama.
- Mamma… mamma?
È rigida e penso che è troppo immobile, il colore della sua pelle ha perso le sfumature rosate lasciando affiorare un velo giallastro. Mia madre non è malata di qualcosa in particolare, sono quei piccoli acciacchi che le danno un colorito poco sano. Ma ora quel colorito nuovo mi colpisce: mai visto prima (tranne da piccola, ma quello era … penso per un istante e non finisco la frase, così rapida e furtiva come si era presentata è partita, scoppiando come una bolla di sapone) e so che non è un colore vivo. Un’altra freccia e questa volta mi scuoto: bellatrix.
Solo la parola, niente altro. Da dove viene?
Ah, sia chiaro: niente emozioni.
La paura? Non lo so, ma mi vedo – ho tempo di farlo e non so come possa accadere – come un capriolo accecato dai fari di una macchina e suppongo che mentre sta per accadere l’inevitabile, il capriolo non pensi niente e soprattutto non abbia emozioni. Solo una grande e assoluta paralisi.
Quindi, non paura, non dolore, non incredulità: la mente è un foglio bianco dove campeggia la parola paralisi. a parte il gatto, tutto è paralizzato nella stanza e nella sacca delle mie emozioni.
Chiudo la porta e mi si dilata l’orizzonte quando raggiungo il telefono. È lontano un chilometro, compio cento, mille passi. Agli angoli degli occhi il panorama è distorto, come se stessi guardando da una lente deformante. Meccanicamente chiamo un’ambulanza. Poi, mio fratello al lavoro.
Non riesco a ricordare quello che ho detto al telefono. Niente. Mio fratello ricorda tutto, ma quando mi ha ripetuto quello che gli ho detto, io non sono riuscita a smentire o confermare.
Un infarto. Ecco la parola, la porta che divide a metà la stanza della mia esistenza. Semplice parola, facile da pronunciare proprio com’è facile aprire una porta. Un gesto e tutto cambia. Un gesto e non si è più vivi. Mio fratello è lì che mi scruta mentre gl’infermieri sono chini su di lei, mia madre, il bagliore arancione dei loro giubbini mi ferisce gli occhi, mi riporta alla realtà di colpo e finalmente odo i rumori dentro la stanza, il traffico dell’ora di punta fuori, le voci, le voci familiari… e apro gli occhi.
Sono nel mio letto. Non metto subito a fuoco, e come potrei senza lenti?
Mi massaggio lo stomaco, mi fa male. Ho la nausea, come se avessi appena mangiato. E capisco che è tutto un sogno. Un sogno dove un mio caro amico mi racconta di un sogno e dove trovo mia madre morta in camera sua, sotto le coperte. Annaspo col respiro e poi mi sciolgo. Rido ad alta voce. Di là, la voce di mio fratello che parla e, inaspettata, quella profonda di mia madre gli fa da contrappunto.
Mamma… sussurro con un sorriso incontrollabile, talmente potente da farmi male gli zigomi.
Mi alzo e maledico la cena di ieri sera: che razza di sogno mi ha fatto fare! Mai più queste cene pantagrueliche!
Prima di uscire dalla stanza eseguo il solito rito, finalmente rilassata: mi metto le lenti, mi vesto, rifaccio il letto, accendo il pc, guardo se è arrivata posta. C’è posta, sì, una mail.
È del mio amico, quello che in sogno mi aveva sognato guerriera.
Nessun oggetto, niente testo, solo un allegato; un’immagine.
Pallade Atena.
Non si può tornare indietro, è tutto quel che riesco a pensare.
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